Noto, studenti del “Raeli” a lezione con Malina Suliman, la street artist che ha sfidato i talebani


NOTO – A lezione di diritti sulle donne. Gli studenti dell’Istituto d’istruzione superiore “Matteo Raeli” di Noto hanno incontrato oggi Malina Suliman, artista afgana 26enne.
Con una bomboletta spray e un po’ di colori, Malina Suliman ha deciso di protestare contro il regime talebano e di ribellarsi alle condizioni a cui la donna è sottomessa nel suo Paese, l’Afghanistan. La street artist, nota per l’opera degli scheletri che indossano il burqa, ha raggiunto l’Istituto “Matteo Raeli” di Noto per una lezione del tutto eccezionale.
L’incontro è stato realizzato all’interno del progetto “Toponomastica femminile” e in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Noto. Suliman ha raccontato la sua esperienza ai ragazzi e alle ragazze e, in seguito, ha realizzato un disegno sul muro de “Il giardino delle giuste”.
La giovane afgana ha iniziato a fare street art a Kandahar, scegliendo proprio questa forma di comunicazione per raggiungere, attraverso i muri e quindi più direttamente, le donne del suo Paese che non sanno scrivere, non sanno leggere e non possono frequentare le mostre. Ѐ difficile essere una donna quando si vive in Afghanistan: per questo ha deciso di rischiare la propria vita e, servendosi del rosso e del nero, ha realizzato alcuni disegni per poi fuggire. In Afghanistan infatti non è permessa la street art, soprattutto se porta con sé valori e idee non allineati. “Sono disegni veloci, non sarà un lavoro bellissimo, ma quello che conta per me è il messaggio”, ha spiegato la street artist agli studenti.
“Ho iniziato a fare street art a Kandahar, dove non c’erano street artist – ha raccontato l’artista – Quando ho iniziato a raffigurare le donne in questo modo, mi dicevano che ero pazza. Dove vivevo le differenze di genere sono comuni, naturali. Ѐ una mentalità molto diffusa: la donna viene vista come una persona che deve stare in casa, qualsiasi cosa debba fare deve chiedere il permesso ai genitori, non può uscire da sola, non può fare shopping. Non ti permettono nemmeno di studiare all’università. C’è una cultura del “no” per la donna”.
“Tutto ciò molte volte viene considerato normale, in altri casi è troppo – ha precisato Suliman – I miei genitori non sono conservatori, ma sono stati influenzati dall’ambiente in cui vivono. Anche quando ero piccola sentivo l’oppressione ma avevo dei desideri. Quando sono diventata più grande, ho capito di non poter accettare questa condizione. Per questo, sono stata rinchiusa in casa per dieci mesi”.
Nel 2001 ha fondato la Kandahar Fine Arts Association ed ha allestito la sua prima mostra. Dal 2013 lavora al Van Abbemuseum di Eindhoven, in Olanda, dove si è trasferita per sfuggire alle minacce di morte. L’arte e il messaggio di Suliman hanno raggiunto tutto il mondo.
“Quando ho pubblicato i miei lavori alla National Gallery di Kabul, mi sono liberata – ha proseguito nel suo racconto – Ho iniziato a ridere, a piangere, a urlare e a provare sentimenti. Ho dovuto litigare con i miei genitori perché non l’hanno accettato. Non ho alcun rapporto con mia madre, ma con mio padre le cose stanno migliorando. Io adesso sono libera di dire la mia, di seguire il mio sogno. Se si crede nelle cose e si lotta, prima o poi si troverà la soluzione. Prima o poi la gente capirà”.
Sui muri di Kandahar restano adesso gli scheletri che indossano un burqa. Il ritratto, insomma, di donne senza diritti e senza identità, anche se “le cose stanno cominciando a migliorare piano”, ha spiegato Suliman, che ha detto rivolgendosi ai ragazzi: “C’è effettivamente un po’ di libertà, ma bisogna continuare a lottare”.
Alessia Costanzo