Già nessuno canta più come te


La mattina del 18 maggio ho letto sbigottito la notizia della morte di Chris Cornell. Se n’è andato a soli 52 anni, uno dei capostipiti della Seattle Sound. Eh già, perché agli inizi degli anni ’80, più di dieci anni prima dei Nirvana che con il loro “Nevermind” riuscirono a rendere popolare il “grunge”, c’era una band dove il nostro caro Chris suonava la batteria, si chiamavano Shemps e nel giro di poco sarebbero diventati “Soundgarden”. In questi momenti si accumulano i ricordi di ognuno di noi legati all’artista in questione, solitamente si condividono le cose più intime e toccanti come elementi di una storia personale che si intreccia ad una storia più grande.
Esiste un video di un concerto in cui Chris canta in maniera sublime “Hunger Strike” mentre i due figli giocano sul palco dopo essere comparsi all’improvviso (guarda il video). Vorrei tanto poter fermare il tempo e fare in modo che quel brano duri in eterno, vorrei poterlo vedere sempre lassù a giocare con i suoi bambini, mentre fa quello che meglio sapeva fare, emozionare il mondo con la sua voce. Chris era un sopravvissuto, una delle ultime costole integre del grunge di Seattle. Un passato estremamente difficile alle spalle fin dall’infanzia, con la separazione dei suoi genitori prima e la lotta contro le sue dipendenze dopo. Eppure sembrava essere uno che ce l’aveva fatta, uno che aveva lottato contro i propri demoni sconfiggendoli e che poteva godersi questa vittoria con le persone più importanti della sua vita al suo fianco. Invece a poche ore dall’ultimo concerto insieme ai redivivi “Soundgarden” la terribile notizia della morte e l’ipotesi poi confermata del suicidio.
“Ma chi gliel’ha fatto fare aveva tutto, successo, soldi, una bella famiglia, non gli mancava niente!”, solitamente sono queste le prime cose a cui pensiamo quando apprendiamo del suicidio di un personaggio famoso. Senza considerare che quello che equivale al “tutto” per noi, può non essere sufficiente a renderti felice, e può essere un nulla per qualcun altro.
Non ci rendiamo conto che prima di essere cantanti o attori queste persone sono essere umani. La verità è che per certe persone non è facile essere se stessi, né convivere con il proprio io, con i propri pensieri, con le proprie paure, con la malinconia che non ha un motivo per esserci ma c’è. Ognuno di loro probabilmente si domanda ogni giorno perché non può essere come gli altri, perché non riesce a mandar via tutta la negatività, ma spesso non riesce a darsi una risposta. E l’essere sempre sotto i riflettori può non essere d’aiuto. Ogni persona sta combattendo dentro di se una personale guerra silenziosa di cui il resto del mondo non sa nulla, una lotta con dei dolori inespressi, incompatibili talvolta incomunicabili con chi ti circonda. Alcuni hanno nei loro occhi il tremore di chi non sa cosa gli stia accadendo, la sudorazione di chi non sa spingersi all’adattamento, non per mancanza di volontà o debolezza, ma perché proprio non ci riesce. Anime forse troppo sensibili costrette a vivere la loro esistenza come statue desiderose di liberarsi da quel pesante vestito di cemento che li blocca e non gli fa affrontare la vita come gli altri…
Spesso la musica diventa un’ancora a cui aggrapparsi, un mezzo attraverso il quale veicolare le proprie inquietudini e le proprie paure per ribaltarle, combatterle e sconfiggerle. I ragazzi dell’epopea del “Seattle Grunge” nati sul finire dei ’60 non avevano vissuto una guerra mondiale né combattuto in Vietnam. Nell’America della Guerra Fredda e della repressione culturale, il divorzio, la solitudine, la disoccupazione e l’alienazione erano il loro Vietnam. La loro ribellione non poteva avere un tono epico, né un proclama idealista, era un urlo sgraziato e spontaneo di rabbia. Si contrapposero con il sarcasmo e con un lamento apatico al dilaniante ottimismo anni ’80, utilizzandoli come probabili antidoti per evitare di perdere quell’estrema umanità che spesso ha portato molti di loro a simpatizzare con il fallimento.
Forse proprio a causa dell’impossibilità di reprimere totalmente la consapevolezza delle proprie paure, delle proprie ansie alla fine nonostante “non gli mancasse nulla” Chris ha deciso di impiccarsi a 52 anni. Lasciando una moglie e due figli che non potranno più giocare sul palco con lui. Rimane impossibile determinare con esattezza le ragioni che spingono una persona a compiere un gesto così estremo, e l’essere Chris Cornell o Kurt Cobain, o Robin Williams, o Philip Seymour Hoffmann non rende le cose più semplici.
Non sta a noi giudicare la persona, ancor di più basandoci sulla sua professione o sulle sue possibilità economiche. Possiamo solo fermarci a riflettere e augurarci di non essere mai nemmeno lontanamente coinvolti in un episodio di questa portata.
Perciò a te dico “Say hello to heaven, Chris”, avevi proprio ragione nella tua sublime “Black Hole Sun”: “no one sings like you anymore”.
(fonte della foto: www.billboard.com)