Firenze – Una delegazione dell’Arcidiocesi di Siracusa capeggiata dal nostro Arcivescovo Salvatore Pappalardo e della diocesi di Noto con il vescovo Staglianò sono presenti al quinto convegno ecclesiale nazionale che si terrà fino a venerdì.
«È la mia voce che ora ascoltate,
sono Santa Maria del Fiore.
Mi volle la città fervente
alta sopra di sé […].
Grande mi concepirono i mercanti
e il popolo minuto.
Ebbero di me una visione grande
Arnolfo, Giotto, ser Filippo,
assistettero alla mia nascita, essi,
propiziarono la mia crescita,
un popolo di artefici si adoperò per me nei secoli,
l’Opificio è ancora aperto,
non sarò mai compiuta. […]
Leggere e ahimè vivere i tempi, non misconoscerli o negarli
è ancora parte del ministero mio sopra la terra.
Che questo sia fatto degnamente
in reciproca profferta
di magistero e perenne apprendistato.
Vengano a me per imparare gli uomini,
vengano per insegnare e accrescere
la dottrina mia, vengano, venite.
Per questo spalanchiamo la porta che fu sempre aperta».
Con queste parole si è aperto il convegno e nel suo intervento di saluto dell’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori il quale ha poi affermato: “Sono le parole che Mario Luzi pone in bocca a questa cattedrale, fatta figura della Chiesa, nel suo Opus florentinum, composto in occasione del Giubileo del millennio. Sono le parole con cui, fratelli e sorelle delle Chiese d’Italia, vi accoglie la Chiesa di Firenze. In queste parole si illumina la consapevolezza di mutua appartenenza tra Chiesa e città che trovate rappresentata nelle pareti di questa cattedrale e quella convinta apertura al dialogo tra ricerca dell’uomo e verità cristiana, che Papa Francesco traduce nella felice immagine di Chiesa “in uscita”. Siamo giunti qui dal battistero, in cui abbiamo fatto memoria della nostra conformazione a Cristo, e usciremo nel mondo, nella storia, nella piazza in cui dal campanile di Giotto si apprendono i lavori dell’uomo insieme a quelli di Dio, il mestiere di vivere. Tutto questo ci è chiesto di approfondire e sperimentare in questi giorni fiorentini – aggiunge il prelato – , in cui le parole del nostro poeta devono però entrare in dialogo con quelle di un altro poeta contemporaneo, proveniente, questi, dal cuore dell’Europa, Rainer Maria Rylke, che nel suo Libro d’Ore – mirabile sintesi della spiritualità dell’Oriente, dove il divino si mostra come lo spazio misterioso e indicibile del cuore dell’uomo, pacificato oltre il moto dei sentimenti e degli affanni della vita, quale risplende nelle figure sui fondi d’oro delle icone, ancora echeggiate nei mosaici del nostro battistero, dove appaiono però già i primi movimenti di un’arte nuova, nostra –, Rylke, dunque, così dipinge la figura tormentata dell’uomo occidentale, colto nell’emergere della propria affermazione di sé:
«Furono i giorni di Michelangelo,
dei quali ho letto in libri d’altre terre.
Fu l’uomo, allora, che oltre ogni misura –
grande, gigantesco –
dimenticò che esiste l’impossibilità di misurare.
[…] Dio solo resta oltre il suo volere:
ed egli l’ama con un intimo rancore
perché non può raggiungerlo».
Se questa, così come la descrive Rylke, è la vicenda della ricerca umanistica dell’Occidente, c’è da chiedersi se noi qui non stiamo osando un’impresa disperata. Ed è pur vero che così l’ha intesa una larga, non poche volte prevalente, linea interpretativa dell’umanesimo. Henri De Lubac lo ha denunciato come il Dramma dell’umanesimo ateo: se l’affermazione dell’uomo deve intendersi come il separarsi da Dio, altro esito non c’è che il dramma, la perdizione, il non-senso. Ma non è, questo, un esito ineluttabile, perché nella stessa seminagione del Rinascimento può ben cogliersi un’Alba incompiuta, come si esprime ancora De Lubac con una felice formula. Quel che fu allora pensato non fu senza o addirittura contro Dio. Ciò che mosse i suoi passi da questa città, tra la fine del Duecento e fin tutto il Cinquecento, ebbe le sue radici più proprie in una visione della vita e della storia, che nella fede cristiana riconosceva il vertice del cammino dei popoli e delle culture che l’avevano preceduta e in essa ripensava la classicità, per proiettarsi in progetti futuri. A questa verità dell’uomo occorre tornare ad attingere. Ventinove anni fa san Giovanni Paolo II nel suo discorso a Firenze – prosegue il cardinale Betori -, in Palazzo Vecchio, ci richiamò a promuovere la verità sull’uomo, proponendolo come «un dovere improrogabile. “La verità che tanto ci sublima” (Dante Alighieri, Paradiso XXII, 42) è un valore incommensurabile. Lo è nei contesti storici proclivi alla menzogna, facili alla falsificazione, disinvolti nel culto delle mezze-verità». Non ci abbandona certamente la consapevolezza che nell’affermare se stesso l’uomo può anche decadere in forme orrende di disumanizzazione: Siamo eredi di una storia che, specialmente nei secoli a noi più vicini, ha mostrato quanto feroce e brutale possa essere l’umanità. Solo se l’umanesimo riveste i caratteri della carità può sfuggire a questo destino. Ed è quanto mostra la storia di questa città, in cui l’affermazione dell’umano, nelle sue espressioni migliori, ha saputo legare insieme il senso alto della cultura e dell’arte con la cura del debole e l’esercizio della misericordia. In una siffatta visione dell’umanesimo non abbiamo timore di inoltrarci, in quanto in essa riconosciamo non una teoria astratta sull’uomo, ma un’esperienza dell’uomo fatta tessuto di condivisione di popolo. Lo indica Papa Francesco nell’Evangelii gaudium: «Il sostrato cristiano di alcuni popoli – soprattutto occidentali – è una realtà viva. Qui troviamo, specialmente tra i più bisognosi, una riserva morale che custodisce valori di autentico umanesimo cristiano. Uno sguardo di fede sulla realtà non può dimenticare di riconoscere ciò che semina lo Spirito Santo. […] Non è bene ignorare la decisiva importanza che riveste una cultura segnata dalla fede, perché questa cultura evangelizzata, al di là dei suoi limiti, ha molte più risorse di una semplice somma di credenti posti dinanzi agli attacchi del secolarismo attuale» (n. 68)”.
Salvatore Pappalardo