Etna: lo tsunami ritrovato? Ecco spiegate le ipotesi della ricerca italo-tedesca
L’Etna è una star, si sa. Qualunque cosa si dica o scriva su questo enorme vulcano attivo che domina il centro del Mediterraneo diventa subito notizia. Ed infatti, l’articolo pubblicato ieri da un team di ricercatori italiani e tedeschi su una prestigiosa rivista scientifica internazionale è diventato subito virale. Tuttavia, molte delle testate giornalistiche in lingua italiana hanno tradotto e sintetizzato la notizia in modo distorto, enfatizzando soprattutto nei titoli l’aspetto più “sensazionalistico” della speculazione scientifica, scrivendo di tsunami catastrofico imminente, di incombente pericolo e di allarme della comunità scientifica. Ma non è proprio così. Cerchiamo di attenerci ai fatti e di capire meglio la scoperta, puntualizzando quali possono essere i vantaggi in termini di avanzamento delle conoscenze e di utilità per la collettività.
Che il fianco orientale del vulcano sia soggetto a continue deformazioni e lenti collassi è cosa nota da tempo. Ne abbiamo accennato anche in questo blog un paio di anni fa, ma i primi articoli scientifici che descrivono chiaramente questo fenomeno risalgono addirittura ad alcuni decenni fa, tra cui anche un mio articolo datato 1991. All’inizio la comunità scientifica accolse con scetticismo la nuova teoria, ma poi il progresso scientifico legato all’introduzione di nuove tecnologie ha messo tutti d’accordo, dando definitivamente ragione alle prime, acute intuizioni. In estrema sintesi, oggi sappiamo che l’intero fianco orientale dell’Etna si sposta verso sud-est, in media di pochi centimetri l’anno. La velocità di deformazione aumenta quando l’Etna da luogo ad eruzioni laterali, quelle prodotte da fessure eruttive che si aprono lungo le sue pendici, fino a raggiungere spostamenti del suolo di vari decimetri cumulati in pochi giorni. Il settore del vulcano interessato da queste deformazioni è molto vasto (oltre 700 chilometri quadrati) ed è delimitato da faglie, cioè da fratture della crosta che bordano i blocchi instabili dell’Etna, in continuo movimento come le tessere di un mosaico che scivolano l’una accanto all’altra.
Ma allora, cosa dice di nuovo l’ultimo articolo sull’Etna che sta suscitando tanto scalpore? I ricercatori hanno collocato dei sensori sul fondo marino antistante il vulcano, ad una profondità di circa 1200 metri, in una zona interessata dall’ipotetico prolungamento di una delle faglie che sulla terraferma delimitano la zona in deformazione dell’Etna. Tra aprile 2016 e luglio 2017 questi sensori hanno misurato le deformazioni del piccolo tratto di fondale marino monitorato, individuando uno spostamento di circa 4 centimetri avvenuto improvvisamente nel maggio 2017. Una deformazione apparentemente piccola, eppure paragonabile o superiore a quelle che si registrano sulla parte subaerea dell’apparato vulcanico.
Dal punto di vista scientifico questo è un dato importante, perché conferma che le stesse deformazioni che interessano il fianco orientale dell’Etna si estendono anche sotto il livello del mare, coinvolgendo il fondale marino fino alla piana batiale, ad oltre 2000 metri di profondità. Partendo da questo dato, inoltre, i ricercatori speculano sulla possibilità che il “motore” di queste deformazioni non sia tanto la risalita di masse magmatiche dal mantello terrestre verso la superficie, quanto piuttosto la gravità, ovvero il peso stesso del vulcano. Insomma, secondo i ricercatori che hanno firmato l’articolo in questione, si tratterebbe di una immensa frana in parte subaerea ed in parte subacquea. E se questa frana collassasse all’improvviso, potrebbe causare uno tsunami catastrofico.
Ma è davvero plausibile ipotizzare un simile evento? Quante sono le probabilità che ciò accada? Quanto tempo occorrerebbe per il suo manifestarsi? Quali aree della costa sarebbero interessate? Personalmente, non ho elementi per rispondere a queste domande, né l’articolo appena pubblicato chiarisce questi interrogativi. La scienza progredisce per ipotesi, teorie, sfide anche provocatorie. Non bastano certo alcuni mesi di misure di deformazione su un limitato lembo di fondale marino a risolvere i quesiti appena posti. Occorrerebbe il monitoraggio continuo delle deformazioni dei fondali attraverso l’installazione di numerosi altri sensori in aree ben più vaste, eseguendo misure per tempi decisamente più lunghi. Che poi è anche l’auspicio di tutta la comunità scientifica italiana, ben cosciente di ciò che si sospetta stia accadendo al largo della costa ionica etnea. Un auspicio sottolineato nel maggio 2018 anche nelle conclusioni di un tavolo tecnico promosso dalla Protezione Civile nazionale dedicato proprio alla valutazione di pericolosità da tsunami connessa a vulcani parzialmente o interamente sottomarini, e che ha coinvolto i maggiori scienziati esperti del settore.
Di certo, però, la traduzione giornalistica dell’importante ricerca appena pubblicata è decisamente votata ad un eccessivo sensazionalismo. Non ci sono elementi per definire con certezza se una frana di tali dimensioni sia mai avvenuta in passato, se avverrà davvero in futuro o se sia addirittura imminente. Non si sa se avverrà in modo istantaneo oppure se si manifesterà attraverso deformazioni lente e continue che non possono generare tsunami, né si può dire quanto vaste saranno le aree coinvolte. Tutti elementi di assoluta incertezza che non giustificano affatto l’allarmismo che traspare dai titoli dei giornali di larga diffusione.
Infine, giusto per sottolineare che l’argomento non è certo nuovo all’Etna, desidero richiamare alla memoria un contributo scientifico intitolato “Lost tsunami” (lo tsunami perduto), pubblicato nel 2006 da alcuni ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. In quell’articolo si speculava sul fatto che la Valle del Bove, una profonda erosione prodotta da un’enorme frana avvenuta diecimila anni fa sul fianco orientale dell’Etna, aveva causato il crollo impetuoso nel Mare Ionio di ben trenta chilometri cubi di roccia, causando uno tsunami di dimensioni spaventose che avrebbe devastato le coste del Mediterraneo orientale. Uno tsunami “perduto” e dimenticato perché non registrato chiaramente dalle cronache storiche di quel periodo tanto antico. Uno tsunami oggi “ritrovato” nell’ipotesi di lavoro del team di ricercatori italo-tedesco. Ma si tratta, appunto, solo di un’ipotesi di lavoro, da approfondire e sostanziare in modo più robusto, nulla di più.
Marco Neri*
*Primo Ricercatore, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia – Sezione di Catania, Osservatorio Etneo
[Immagine all’interno dell’articolo: Mappa delle deformazioni che interessano il fianco orientale dell’Etna ed il fondale marino ionico ad esso antistante. Le linee nere indicano le faglie principali che delimitano i blocchi in movimento (le linee continue sono faglie localizzate sopra il livello del mare, le linee a tratteggio sono faglie ubicate nel fondale marino). Il riquadro arancione mostra la porzione di fondale marino studiata con i transponder geodetici. Figura estratta da: M. Urlaub, F. Petersen, F. Gross, A. Bonforte, G. Puglisi, F. Guglielmino, S. Krastel, D. Lange, H. Kopp, Gravitational collapse of Mount Etna’s southeastern flank. Sci. Adv. 4, eaat9700 (2018)]