Quando arriva lo tsunami


Sono passati solo pochi giorni dalla notizia che un fianco dell’Etna sarebbe in procinto di collassare impetuosamente in mare producendo un catastrofico tsunami. Poi sono arrivate le smentite, doverose e circostanziate, della comunità scientifica. Infine, pochi giorni fa, uno tsunami è arrivato davvero sulle coste italiane del meridione. Piccolo e non pericoloso, eppure è arrivato. E questa volta l’Etna non c’entra nulla.
Il piccolo maremoto (sinonimo di tsunami) è stato generato da un terremoto piuttosto violento, Magnitudo Mw 6.8, avvenuto poco prima dell’una di notte dello scorso 26 ottobre, con ipocentro profondo dieci chilometri dal fondale marino al largo della costa occidentale greca del Peloponneso. Tutti ingredienti giusti per generare uno tsunami ed infatti, dopo soli otto minuti dal sisma, il Centro Allerta Tsunami (CAT) dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) ha inviato al Dipartimento della Protezione Civile un comunicato dichiarando un livello di allerta arancione: per le coste italiane si attendeva un’onda inferiore a un metro di altezza in terraferma e inferiore a mezzo metro in mare aperto. Quindi, un fenomeno relativamente piccolo ma potenzialmente pericoloso per chi si fosse trovato in prossimità di porti o spiagge.
L’onda di tsunami ha impiegato meno di un’ora per coprire i trecento chilometri di mare che separano l’epicentro del terremoto dalla costa calabra. Un’onda che si è rivelata di altezza inferiore a dieci centimetri ai mareografi di Le Castella e di Crotone. E nessun danno a cose o persone.
Questo evento ci consegna alcune conferme e qualche punto di domanda. La conferma maggiore è che anche nel Mare Mediterraneo avvengono e avverranno maremoti, come illustra il Catalogo degli Tsunami Euro-Mediterranei (EMTC). Ce lo racconta anche la storia sismica del nostro Bel Paese ed in particolare della Sicilia orientale, colpita tragicamente in varie occasioni da terremoti violenti e conseguenti maremoti devastanti, come nel 1692 (Val di Noto) o nel 1908 (Stretto di Messina).
Il 26 ottobre 2018, però, il sisma è avvenuto ad una distanza di varie centinaia di chilometri dalle nostre coste, eppure i suoi effetti, per quanto modesti, hanno ugualmente raggiunto il nostro territorio. Quindi non dobbiamo più preoccuparci soltanto dei fenomeni sismici che accadono in Italia, bensì siamo costretti a difenderci anche da terremoti “importati” dall’estero. Perché le onde sismiche e i maremoti, quando si irradiano dalla sorgente sismogenetica, non riconoscono alcun confine politico. Migrano in tutte le direzioni fino a dove la loro energia gli consente.
La seconda conferma è che il Centro Allerta Tsunami dell’INGV funziona. La sua missione è quella di valutare, in tempo reale, la possibilità che un terremoto possa generare uno tsunami, stimando i tempi di arrivo attesi lungo le coste esposte. Gli otto minuti che separano l’inizio del terremoto dall’invio dell’allerta alla Protezione Civile confermano la sua efficienza. Un fatto per nulla banale, perché in quel brevissimo lasso di tempo i ricercatori impegnati in attività di monitoraggio e sorveglianza 24 ore al giorno devono localizzare il sisma e calcolare la sua magnitudo, valutare se quei parametri possono innescare un maremoto, stimare i tempi di arrivo sulle coste potenzialmente colpite ed infine decidere se diramare il comunicato di allerta, stabilendo anche il livello di potenziale gravità del fenomeno.
La terza conferma è che, per quanto riguarda i terremoti generati in Grecia, la popolazione siracusana ha circa un’ora di tempo per prendere le giuste contromisure e salvarsi la vita. Una conferma che, però, pone anche una domanda ancora aperta a più risposte. Perché un’ora di tempo può essere sufficiente per allontanarsi dalla costa e mettersi al riparo dal maremoto, ma occorre diventare tutti un pò più consapevoli dei rischi che si corrono quando si vive in una zona del mondo bellissima, certamente, ma anche particolarmente sismica come il Mediterraneo centrale.
Un altro punto di domanda riguarda le conseguenze di un sisma violento sulla geodinamica dell’area colpita. È ormai noto, infatti, che sismi molto violenti possono perturbare lo stato di altre faglie sismogenetiche o vulcani circostanti l’area epicentrale. Nel nostro caso, quindi, potrebbero avvenire altre scosse sismiche di magnitudo comparabile a quella appena avvenuta, oppure anche di energia superiore, nei dintorni dell’area già colpita. I ricercatori del CAT-INGV lo sanno bene, dato che tra il 31 ottobre e il 3 novembre 2017 hanno partecipato ad una esercitazione internazionale sul rischio tsunami denominata NEAMWave17, dove hanno simulato per il Mediterraneo un sisma di magnitudo M> 8 con area epicentrale in prossimità della costa greca, cioè sovrapponibile a quella del sisma avvenuto lo scorso 26 ottobre. Un’esercitazione importantissima, quindi, che si inquadra perfettamente nelle necessarie attività di prevenzione e protezione delle popolazioni che si affacciano sulle coste del Mediterraneo.
Infine, le stesse onde sismiche che innescano i maremoti, a volte innescano anche eruzioni vulcaniche in apparati che sono in condizioni “metastabili”, cioè già quasi pronti per eruttare. Per esempio, il 22 maggio 1960 un violentissimo terremoto (M 9.5) è avvenuto in Cile ed ha innescato, trentotto ore dopo, l’eruzione del vulcano Cordon Caulle, situato sulle Ande a circa 240 chilometri di distanza dall’epicentro del sisma. Anche l’Etna, Panarea e Stromboli, nel 2002, sono entrati in una fase eruttiva forse in seguito ad un terremoto (M 5.9) accaduto poche settimane prima nel Mar Tirreno meridionale, di fronte alla costa palermitana. E’ anche vero, però, che se i vulcani non sono già prossimi ad eruttare, uno scuotimento sismico anche violento non causa alcuna eruzione. Ed in ogni caso, il sisma del 26 ottobre scorso è stato probabilmente di magnitudo troppo modesta ed è avvenuto ad una distanza troppo grande per riuscire ad innescare eruzioni nei vulcani siciliani, a prescindere dal loro stato di attività.
Marco Neri*
*Primo Ricercatore, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia – Sezione di Catania, Osservatorio Etneo
(Nell’immagine di copertina. In alto, simulazione della propagazione dello tsunami durante l’esercitazione NEAMWave17. Le isolinee rappresentano i tempi di arrivo della prima onda di tsunami (legenda a destra). In basso, foto dell’Etna ripresa da sud-est)